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La visione di Kyōko Okazaki - Dal decennio perduto nascono i fiori

Il seguente articolo è tratto dal numero 0 della rivista cartacea Keiko - Bedroom Comics Criticism: clicca qui per accedere all’indice completo del numero.

Si può affermare senza indugi: Kyōko Okazaki (1963-) è una delle autrici più importanti della storia del fumetto giapponese.
Tra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, prima che un incidente stradale interrompesse la sua carriera di mangaka nel 1996, ha creato alcune opere fondamentali che hanno settato nuovi standard qualitativi, indagando la vita urbana e suburbana di giovani ragazze e ragazzi cresciuti a cavallo tra il periodo dell’edonismo consumistico conseguente al boom economico degli anni Sessanta e quello dello scoppio della bolla speculativa giapponese.
In questo articolo si cercherà di presentare il lavoro di Okazaki contestualizzandolo nel periodo storico e culturale in cui nasce e si sviluppa – fattore fondamentale per comprenderlo nella sua pienezza – concentrandosi soprattutto sulle sue opere pubblicate in Italia, pink (1989, pubblicato da Dynit con traduzione di Susanna Scrivo nel 2019) e Helter Skelter (2003, pubblicato da Dynit con traduzione di Susanna Scrivo nel 2018), con il tentativo di aggirare le interpretazioni più superficiali e fornire nuovi strumenti di analisi per il loro approfondimento, rilevando le diverse connessioni che le animano.

Contesto

In Giappone, la prima metà degli anni Ottanta è stata caratterizzata dalle conseguenze del miracolo economico che, posizionandolo in cima per livelli di crescita tra i paesi industrializzati, garantiva un diffuso benessere alla popolazione, spingendola all’acquisto quasi sfrenato di beni di consumo. Nel 1986, grazie a una serie di condizioni favorevoli, iniziarono gli investimenti in attività speculative nel mercato degli immobili e in quello azionario. Nel 1991, tuttavia, dopo che la speculazione non venne fermata da politiche fiscali consistenti la bolla finanziaria cresciuta a dismisura esplose, portando a diverse ripercussioni negative (indebitamento della popolazione, aumento della disoccupazione, fallimento di molte piccole aziende e bassi tassi di crescita del paese) e dando inizio al cosiddetto “decennio perduto”.
I manga di Kyōko Okazaki si collocano in questo contesto di trasformazioni socioculturali e, da questo punto di vista, Takeshi Hamano nota come l’individualità e la sua rappresentazione siano state decostruite all’interno di tali radicali mutamenti e i manga si rivelano essenziali per comprendere entrambi i processi1. Le protagoniste delle opere di Okazaki sono tipicamente caratterizzate come ragazze materialistiche, perché il consumo di beni, e persino di corpi, è una pratica fondamentale per questi personaggi: nel consumare, ognuna delle sue ragazze riflette sul rapporto tra donna e società. I lettori e le lettrici dei manga di Okazaki scoprono che queste ragazze si sentono sempre più prive di un legame con la società, sempre più perse nel mondo. Queste ragazze non hanno spazio per collocarsi nella società trasformata dalla “cultura piatta”. I suoi personaggi dimostrano una mancanza di consapevolezza della classe sociale, del genere e di altre questioni sociali, poiché si preoccupano esclusivamente del privato e del personale piuttosto che del sociale2.
I consumatori degli anni Ottanta cercavano paradossalmente di essere allo stesso tempo “diversi” dagli altri e “uguali” agli altri. In relazione ai valori sociali prevalenti, si impegnavano nella ricerca della differenza personale, ma questa struttura è andata persa negli anni Novanta. Nel sistema di valori precedente, i significati dei segni e delle merci erano contenuti in un ordine di valori stabilito; le identità dei consumatori erano in relazione a questo sistema di valori concreti. Pertanto, le pratiche di consumo non si limitavano alla mera materialità, ma erano strettamente legate all’autoidentificazione. Anche dopo lo scoppio della bolla economica, questa pratica culturale è rimasta un modo importante di identificarsi nella società giapponese. Tuttavia, in momenti di crisi, i valori convenzionali e dominanti possono erodersi e le sottoculture possono contestarli politicamente3.
La società dei consumi in Giappone deve essere intesa non solo come un’attività commerciale, ma come un fenomeno sociale. In una società dei consumi senza una prospettiva utopica, le persone sono arrivate a identificarsi sulla base di valori autoreferenziali invece che sociali, ovvero si sono identificate attraverso una serie di pratiche che afferiscono direttamente alla propria vita e che vengono veicolate nella quotidianità (cibo, hobby, ecc.), in cui i soggetti sono coinvolti direttamente, piuttosto che concetti astratti generali (patria, libertà, ecc.). Questa nuova società che è sorta in Giappone negli ultimi due decenni è meglio descritta come una “cultura piatta”. La realtà è costituita dalla premessa che le varie culture stanno collassando completamente l’una nell’altra. Non esiste una forte gerarchia di valori: è come se tutte le dimensioni, poste in parallelo, potessero essere “sfogliate” senza soluzione di continuità. I percorsi di vita delle persone sono diventati più individualizzati e la distinzione tra cultura alta e bassa si è fatta meno netta. Sebbene la produzione di culture (e valori) sia aumentata, queste culture (e valori) non sono gerarchicamente situate4.
Negli anni Ottanta, Chizuko Ueno ha descritto il nuovo modo in cui l’identità femminile delle giovani donne giapponesi si stava ricostituendo nel primo periodo della società consumistica. In seguito, ha analizzato se le pratiche di consumo femminilizzate, sorte con la crescita della società dei consumi (ad esempio, il consumo semiotico5), fossero di natura creativa, al fine di contrastare il sistema di produzione maschile del Giappone postbellico, facilitare la costruzione dell’autostima delle donne e smantellare i valori e le norme sociali convenzionali. Con l’avvento e lo sviluppo della società dei consumi negli anni Ottanta, molte giovani donne sono arrivate a concepire la propria individualità come “femminile” secondo certi parametri. Queste giovani donne hanno fatto uso della logica della differenza6, adottando un’estetica e dei gusti individuali per dare un nuovo significato alle proprie pratiche di consumo, contribuendo alla riconcettualizzazione di ciò che significava essere una donna. Mentre la ricostituzione dell’identità femminile nel sistema produttivo aveva una dimensione politica nella società, la ricostituzione delle pratiche di consumo era semplicemente orientata all’autoreferenzialità. La “cultura piatta” della società dei consumi ha reso le persone sempre più consapevoli di sé, ma non a causa del divario tra desideri e realtà: l’io si è identificato con significati, non con valori, in un processo indifferente alle relazioni sociali; questo è il risultato dello sviluppo di una società iperconsumistica7.

Le copertine delle edizioni giapponesi di Helter Skelter e pink di Kyōko Okazaki.

pink

pink, serializzato originariamente sulla rivista NEW Punch Saurus, riflette l’ansia e l’instabilità del periodo. Yumiko, la protagonista, vive a Tōkyō. Di giorno lavora come office lady, mentre di notte fa la prostituta. Il motivo di questo secondo lavoro è uno solo: i soldi, che gli permettono di vivere una vita agiata, dove può spendere comprando tutto ciò che vuole. Yumiko vive da sola in un grosso appartamento in cui accudisce come animale domestico un coccodrillo, dopo essersene andata di casa a causa di continui screzi con la matrigna. La sua vita segreta con il coccodrillo nell’appartamento è condivisa solo con la sorellastra Keiko, una visitatrice abituale, che simpatizza più con Yumiko che con la madre. In seguito, fa la conoscenza di Haruo, studente universitario di letteratura e amante della matrigna. Condividono il segreto del suo coccodrillo e, in seguito, lei e il suo animale domestico si trasferiscono nell’appartamento di Haruo. Per quanto le vicende procedano anche attraverso episodi leggeri – perché il segno di Okazaki si presta bene a questo tipo di situazioni – prevalgono in Yumiko e Haruo sentimenti di ansia e malessere per il presente e per il futuro, nichilismo, odio e sensi di colpa che vengono sempre repressi grazie all’acquisto di beni materiali o per mezzo del sesso, in un’atmosfera che diventa sempre più carica e pronta a esplodere con il passare dei capitoli. Quando il suo coccodrillo viene rubato e poi restituito sotto forma di valigia in pelle (un atto perpetrato dalla matrigna), la protagonista decide di voler lasciare il Giappone. Nel frattempo, Haruo vince un premio con un romanzo che è, in realtà, un libro composto da pezzi di altri romanzi. Alla fine della storia, i due si organizzano per incontrarsi all’aeroporto e volare via con il denaro del premio, ma Haruo rimane ucciso in un incidente stradale durante il tragitto e nelle ultime pagine Yumiko lo attende invano al terminal, insieme alla sorella Keiko, felice della sua decisione.
Come è facile intuire, la complessità tematica del fumetto è scandita dai passaggi in alcuni argomenti cardine del periodo culturale in cui è stato realizzato. Il vuoto morale ed emotivo dei personaggi, un vuoto che viene riempito con pratiche consumistiche e materialiste, è messo ben in evidenza, così come la parte oscura del postmodernismo – in cui Okazaki galleggia in maniera ambivalente, per effetto della sua grande sensibilità artistica – in cui un libro-bricolage, realizzato con “forbici e colla” prendendo pezzi di altri libri e mettendoli insieme, vince un importante premio letterario. In questo senso, tutto diventa un gioco: la prostituzione, la vendetta, lo studio, l’acquisto compulsivo, la fuga, sono tutti elementi che sono svuotati del loro portato valoriale e sono solo dispositivi per non annoiarsi nell’eccessiva ordinarietà della vita urbana. Tuttavia, per ogni personaggio, la crisi non tarda ad arrivare. Infatti, nonostante Yumiko e Haruo affermino spesso entrambi di essere stupidi e di avere “la testa vuota”, mostrano una sotterranea consapevolezza della loro situazione, della loro vacuità interiore e di quella della società consumistica. In due pagine entrate di diritto nella storia del fumetto giapponese, l’inquietudine esistenziale di Yumi scoppia prima cancellando i disegni, lasciando solo le vignette con pochi e ripetuti testi al loro interno (“Perché? Perché? Perché?”, “Ho paura, ho paura, ho paura, ho paura”), per poi presentare nella splash page successiva una protagonista crollata a terra, sola con la sua sgangherata ombra retinata su uno sfondo completamente bianco e un unico testo: “Vi prego, qualcuno mi aiuti”8.

L’ambiguità dei personaggi così espressa viene sottolineata anche nel programma BS Manga Yawa, una trasmissione televisiva settimanale della durata di un’ora prodotta dalla NHK e andata in onda tra il 1996 e il 2009, in cui diversi studiosi ed esperti approfondiscono e analizzano un’opera a fumetti. Nella puntata dedicata a pink (29 agosto 1996) gli ospiti invitati si sono chiesti se sentirsi liberi significava essere stupidi: da un lato hanno notato la testardaggine e la volontà di non prendere atto della propria situazione da parte della protagonista, dall’altro segnalavano come si fissi con certi comportamenti proprio perché è perfettamente conscia della condizione in cui si trova. Inoltre, viene ribadita la facilità di immedesimazione con i personaggi, perché Okazaki era riuscita a catturare efficacemente lo zeitgeist del periodo, e molte delle tematiche del manga emergono in modo chiaro pur senza essere esplicitate. Si può affermare che questo sia uno degli attributi della scrittura dell’autrice, una particolare modalità di veicolare in maniera esplicita certi argomenti e, allo stesso tempo, suggerire analogie o metafore estreme e percorsi di senso radicali – attraverso il tema della storia, la composizione delle pagine e il montaggio delle vignette – per raccontare la condizione esistenziale dei personaggi, che sembra essere il riflesso di ciò che Okazaki osserva nella società e nelle persone che la circondano, e, più ampiamente, per decostruire il fumetto giapponese. In pink, come nota Spies(2003), questo tipo di metafora è la premessa basilare della storia: Yumiko vende il suo corpo per comprare carne per il suo alligatore domestico, ovvero un’interpretazione di per sé acuta e ironica del ruolo della donna nella società dei consumi. Il capitalismo è infatti definito dal colore rosa e dalla circolazione della “carne”. Il consumo costante di carne, come cibo e come sesso, mostra la fusione di desiderio, fame e ambizione che è alla base della critica di Okazaki alla società giapponese nel pieno della bolla economica9. In una sequenza emblematica, Yumiko si incontra in un bar con la matrigna, la quale le consegna la paghetta che il padre – mai mostrato completamente e chiaramente – le manda tutti i mesi. La matrigna, con il suo fare arrogante e assertivo, nei comportamenti quanto nel linguaggio (indossa il kimono della madre di Yumi, usa vocaboli ricercati, ecc.), le chiede perché non si sia ancora sposata, una domanda che poche pagine prima le aveva fatto un suo cliente. Attraverso la caratterizzazione rozza e dispotica della matrigna, che vorrebbe imporre alla figliastra un matrimonio, Okazaki sembra affermare che sia la prostituzione che il matrimonio sono forme di traffico di corpi femminili (uno scambio di carne), e uno dei punti di incontro tra l’amore e il capitalismo10. La connessione di questi due elementi è ovviamente fondamentale e viene esplicitata anche al di fuori del fumetto in quanto tale: sull’obi11 dell’edizione giapponese è scritta a caratteri cubitali la frase “amore e capitalismo” e nella postfazione dell’opera Okazaki, dopo aver citato il regista Jean-Luc Godard (1930-2022) dicendo che “tutti i lavori sono prostituzione”, scrive che “l’amore non è quella cosa calda e piacevole di cui si parla di solito. Non credo. È una specie di mostro crudele, temibile, spietato e spaventoso. E lo stesso vale per il capitalismo. Ma chi li teme fa una figuraccia, come i bambini che non sanno nuotare e hanno paura delle piscine”12. Questa affermazione in stile Mark Fisher (1968-2017), fatta però vent’anni prima rispetto ai concetti espressi nel testo fondamentale del filosofo inglese Realismo capitalista (2009, in Italia nel 2018 per Nero Edizioni con traduzione di Valerio Mattioli), e soprattutto espressa anche in forma anticonvenzionale attraverso il medium fumetto, dimostra non solo la sensibilità artistica a tutto tondo di Kyōko Okazaki, ma anche le potenzialità teoriche e i possibili effetti sull’immaginario (pop)culturale dei suoi lavori. Infatti, proprio lungo queste direttive, procede a compiere due diverse decostruzioni: la prima, più generale, delle strutture del fumetto; la seconda, più specifica, di Sazae-san e del suo apparato iconografico e valoriale.
Riguardo alla decostruzione della struttura del fumetto, come i manga shōjo più mainstream, pink ha una trama “amorosa” che si avvita su sé stessa, salta e cambia bruscamente tra un episodio e l’altro attraverso l’introduzione di nuove informazioni o personaggi secondari, mentre quelli precedenti e gli eventi passati vengono dimenticati o lasciati alle spalle. Il motivo della “fiaba” è presente in tutta la storia ed è supportato da allusioni testuali e visive (la matrigna cattiva, il padre assente, la ricerca dell’indipendenza, ecc.), nonché da eventi “magici” e da una voce narrante in terza persona che appare in modo piuttosto casuale con commenti o spiegazioni. Questa “fantasia” fiabesca dei manga shōjo classici si contrappone alla cruda “realtà” che entra in gioco attraverso le riflessioni esistenziali e sulla prostituzione per mezzo della grammatica visiva dei manga erotici o pornografici, caratterizzata da rappresentazioni esplicite dei corpi e dei rapporti sessuali13. In questo contesto testuale e grafico si colloca, per esempio, la reinvenzione della semantica dei fiori: se nei manga shōjo i fiori, integrati nel layout di pagina, tendevano nella maggior parte dei casi a evocare l’amore romantico, nel caso di pink richiamano da un lato il sesso a pagamento e dall’altro la scoperta della felicità insita nelle piccole cose, creando un contrasto metaforico di notevole interesse. Di conseguenza, quindi, anche il colore rosa subisce una mutazione di significato. Il rosa del titolo, così come quello amato dalla protagonista, è un colore che il lettore vede solo in copertina e nelle pagine iniziali del manga, prima che effettivamente cominci, ma che non si materializza nella storia. Okazaki evita il didascalismo di presentare un fumetto in tricromia preferendo evocare il colore senza usarlo, fattore che rende il concetto più pregnante, essendo il rosa spesso connotato come un colore acceso, brillante e immediatamente visibile. Come scritto precedentemente, il rosa è il simbolo del capitalismo, il primo elemento descrittivo degli oggetti che Yumiko compra e che ne definisce le loro qualità ai suoi occhi, ovvero l’apprezzamento personale e la possibilità che questi stessi oggetti vengano osservati da tutti quando lei li indossa o li espone in casa. A dispetto di ciò, però, per la protagonista il rosa è anche sinonimo di sollievo e sentimenti felici: questo colore perde alcune delle associazioni comunemente attribuitegli (l’amore romantico, l’innocenza) per collegarsi ai momenti in cui Yumiko fa sesso con i clienti, ma come nota Toshio Okada (1958-), famoso scrittore, studioso e produttore, in BS Manga Yawa, il soffermarsi sul colore rosa in questi momenti denota un sentimento di piccola soddisfazione che allevia la pesante quotidianità a cui lei è sottoposta, anche perché Yumiko stessa lo associa al colore delle unghie di sua madre ormai scomparsa. Inoltre, il rosa è messo in relazione anche con l’espressione di genere e con il mondo femminile, componenti centrali nei lavori dell’autrice.
Per Okazaki, inoltre, la parola “ragazza”, molto utilizzata all’interno del fumetto, viene espressa dalla locuzione onna no ko quando viene usata per le persone che hanno tra i venti e i trent’anni. Lo studioso Takeshi Kitakawa sottolinea che l’autrice usa la parola “ragazza” per mostrare una lotta per un tipo di femminilità che non solo si differenzia dalla mascolinità, ma soprattutto dal femminismo classico e dall’intelligenza sociale delle office ladies. Con l’uso di onna no ko, questa lotta diventa una battaglia per la sopravvivenza delle ragazze in quanto tali e un rifiuto del ruolo assunto dalla società per le donne “adulte”. Questo termine può essere letto come un tentativo di rivalutare il colore rosa, come una parola intrinsecamente connessa alla musica (che l’autrice seguiva con attenzione, soprattutto il genere punk e new wave) o come una frase legata alle scelte di vita dei consumatori che mostrano un gusto alternativo o un capitale culturale differente14.
La seconda decostruzione è quella del concetto di famiglia, che Okazaki elabora attraverso l’utilizzo della figura di Sazae-san. Sazae-san è un manga yonkoma15 di Machiko Hasegawa (1920-1992), serializzato prima sul quotidiano di Fukuoka Fukunichi Shinbun e poi sul quotidiano nazionale Asahi Shinbun dal 1946 al 1974, famosissimo in Giappone, che ha ispirato il più longevo anime di sempre, drammi radiofonici e molto altro. Questa serie racconta le vicende della protagonista, coinvolta in episodi divertenti che ne mettono in luce il carattere gioviale, allegro e pasticcione. Le sue storie diventano con il passare degli anni lo specchio dei cambiamenti della società giapponese, dei suoi usi e costumi, portandola dalle difficoltà del dopoguerra – affrontate però senza patemi d’animo o drammi, ma anzi con ottimismo e fiducia – al boom economico, passando per l’influenza americana in Giappone, facendone un’icona dalla duplice natura: prima dell’emancipazione femminile e poi della famiglia.
Nei capitoli 10 (“Giocare alla donnina di casa è sempre divertente”) e 11 (“Il sogno di Sazae-san”) di pink, Yumiko è costretta a trasferirsi a casa di Haruo, perché il suo appartamento si è allagato. Per tenersi occupata, comincia a pulire casa e a cucinare regolarmente, badando allo stesso tempo a Keiko, che vede un po’ come una figlia, e la sua capigliatura diventa identica a quella iconica di Sazae-san. In questo frangente, Okazaki, fin dal titolo dei capitoli e attraverso i pensieri della protagonista, sottolinea quanto fare la moglie felice sia per Yumi un gioco, una recita, una posa postmoderna, e i suoi vaghi propositi lungo questo percorso siano solo fantasie che devono inevitabilmente scontrarsi con la realtà. Per l’autrice la famiglia si è disintegrata perché i valori che sostenevano le sue fondamenta si sono dissolti e proprio per questo nel fumetto ci sono sostanzialmente solo famiglie monche e disfunzionali. È interessante notare come la parentesi “familiare” sia introdotta dalla prima notte d’amore con Haruo e si interrompa la notte successiva con il rifiuto di Yumi di andare nuovamente a letto con lui, stanca dal sesso fatto durante tutta la giornata con i suoi clienti. Il rifiuto è una forte presa di posizione che afferma la libertà e l’indipendenza femminile, che non deve sottostare ai dettami imposti dai costumi sociali del matrimonio, e riporta la “realtà” all’interno degli schemi strutturali dei manga shōjo. Nei vari frontespizi dei capitoli, le illustrazioni fatte dall’autrice delle icone americane della femminilità – come Campanellino, Barbie, Marilyn Monroe (sulla quale si tornerà nel prossimo paragrafo), Biancaneve16 – si alternano ad allusioni visive ai film di Godard e alle fotografie bondage di John Willie (1902-1962). Ancora una volta, è importante notare la continuità visiva nella giustapposizione della fantasia “femminile”, carina e romantica, con la realtà “maschile”, sexy e pornografica17. Una simile modalità operativa mostra nuovamente la decostruzione dei paradigmi consolidati del fumetto giapponese e, allo stesso tempo, si inquadra nell’attitudine iconoclasta di Okazaki, pronta a distruggere ogni tipo di icona per mostrarne l’intrinseca vacuità. Nell’analisi del prossimo paragrafo verrà trattato più approfonditamente questo aspetto in relazione alla sua opera più famosa. Tornando a BS Manga Yawa, Okada ha affermato di “odiare” l’opera in modo positivo, poiché ha rappresentato la contemporaneità di uomini e donne in modo così realistico da essere dolorosa. Jun Ishikawa (1951-), mangaka, scrittore e critico (e anche lui autore del programma), ha apprezzato l’esistenzialismo veicolato da Okazaki nel suo lavoro e la facilità con cui si possa leggere e comprendere nonostante sia altamente simbolico, come molti altri suoi manga. Ishikawa afferma anche che l’uso dei retini di Okazaki è senza precedenti, innovativo per il tipo di ombreggiature, antirealistiche ed evocative, che escono fuori dai contorni dei personaggi, dando l’impressione che questi ultimi portino appresso il loro lato oscuro come una sorta di presenza materiale. Hamano (2019), riprendendo il pensiero di altri studiosi, scrive che Yumiko è una persona tipica della società dei consumi tardo-capitalista. Il suo atteggiamento rappresenta l’etica del capitalismo, che riduce tutte le differenze qualitative a mere differenze quantitative. In questa situazione, il senso dell’ordine di valori della società, comprensivo delle ideologie, viene meno e l’atomizzazione degli individui in relazione alla società viene enfatizzata. Il desiderio diventa autoreferenziale, egoistico e orientato al consumo: non contesta, né rifugge, l’ordine prevalente della società. Alcuni, come Eiji Ōtsuka (1958-), ritengono che pink possa essere letto come una storia in cui Okazaki colloca criticamente la sessualità femminile contro il mondo semiotico del consumo, insistendo sul fatto che i manga shōjo hanno lottato con la rappresentazione della sessualità femminile fin dagli anni Settanta, ma che la sessualità femminile è diventata sempre più un oggetto di consumo semiotico a causa della rappresentazione mediatica. Per Ōtsuka, Okazaki ha tentato di recuperare la sessualità femminile attraverso i manga. Altri studiosi, viaggiando controcorrente rispetto a questa interpretazione, sostengono che questo manga dovrebbe essere letto come un racconto postmoderno sulla perdita del senso della realtà. I confini culturali non sono contestati, ma l’appiattimento dei segni (e dei valori) è evidente. Tuttavia, Yumiko potrebbe essere ancora incapsulata all’interno delle norme sociali prevalenti, pur esprimendo (e sentendo) l’insicurezza ontologica e manifestando il suo atteggiamento ambivalente nei confronti della famiglia (e della sua dispersione) nel flusso di segni18. Shogo Sugimoto ritiene che le qualità speciali di quest’opera siano quella di rappresentare il conflitto tra la logica della metropoli degli anni Ottanta, che “interiorizza” l’”esteriorità” dell’”altro”, e la logica di resistenza del soggetto che cerca di opporvisi, e quella di esprimere la critica allo spazio urbano di Tōkyō che ha reso possibile il consumo dei corpi19.
Hamano ritiene comunque che le scelte di Yumiko e delle ragazze che rappresenta, spesso scoraggiate dalla disparità sociale, diventano, attraverso il denaro, un mezzo per raggiungere la propria libertà nella società consumistica20, una conclusione a cui arriva anche Ryan Holmberg riflettendo sui fumetti di Yamada Murasaki (1947-2009) realizzati negli anni Settanta, seppur partendo da premesse e avendo propositi finali differenti21.

Queste tematiche verranno poi rielaborate ed espresse sotto un’altra forma in River’s Edge (1993, Takarajimasha), inedito in Italia, in cui l’autrice getta nuovamente i suoi personaggi, dei giovani liceali, nell’insicurezza ontologica della vita contemporanea, causa scatenante di comportamenti ambigui e autodistruttivi. Sia in pink che in River’s Edge, Okazaki tende spesso a isolare i personaggi nelle vignette, lasciando che la solitudine emerga sia dal suo tratto fragile, pronto a spezzarsi e potenziato da effetti grafici dati dai retini, sia dalla loro impossibilità di comunicare i propri effettivi sentimenti, svuotati come sono da ogni emotività. In entrambi i casi, quando si ritrovano insieme, è solo perché condividono un obiettivo, uno scopo o un segreto e non per passare del tempo libero insieme al di fuori di logiche meccanicistiche. Tuttavia, nel momento in cui sembra che le cose possano cambiare, cioè nel momento in cui subentra una sana affezione condivisa, la situazione sfugge di mano e il dramma, che cova sotterraneo pronto a compiere disastri, elimina ogni residuo di speranza per una “salvezza” personale o una vita comunitaria soddisfacente.
Bisogna notare, per dovere di completezza, che la versione pubblicata in volume e quella originariamente serializzata differiscono in più parti, come il finale, che era stato solo preannunciato su rivista, prima che questa chiudesse per le scarse vendite, e poi aggiunto nel volume. La differenza più rilevante, come segnala Matsumoto, è l’eliminazione di alcune linee di dialogo che inquadravano pink sotto un framework differente rispetto a come viene percepito in volume, inserendolo negli schemi sociodemografici a cui si rivolgeva NEW Punch Saurus. Infatti, la frequente contrapposizione di termini quali monotōn no otoko (“uomo monotono”) e musume-san (“signorina”), mostra quanto la rappresentazione svagata e disinibita di Yumiko diventasse un oggetto del desiderio per gli uomini che si trovavano a leggere la rivista, che si identificavano con la monotonia della vita dei frequentatori a pagamento della protagonista. Le gyaru22 diventavano così le fantasie sessuali dei salaryman. Anche la decostruzione precedentemente analizzata di generi, fiabe e fumetti del passato è stata inserita a posteriori direttamente in volume, attraverso l’aggiunta di un’elusiva frase iniziale che sconvolge il pretesto fiabesco, del cambio dei titoli dei capitoli che tendono a rimandare al concetto di famiglia e dell’eliminazione della frase “Just a pop love tale” nei frontespizi – una frase che mostrava solo un aspetto della complessità della protagonista – evidenziando così la volontà autoriale di Okazaki di liberare la propria opera da certi canoni e ricostruirla con una precisa direzione: mettere in scena la realtà delle “ragazze” al di fuori del modo in cui sono immaginate dagli “uomini” e proporre non una semplice storia d’amore, ma raccontare la vita di una giovane che è annoiata dalla realtà ed è in cerca di qualcosa per ridare colore ai propri giorni. Tuttavia, “thrill e suspense” diventeranno anch’essi la norma e il ciclo di crisi tornerà a ripetersi, sottolineando il rapporto illusorio e deludente con la realtà23.
Riassumendo, si può affermare che, con il passaggio del fumetto dalla rivista al volume, Okazaki ne abbia reso universali i temi qua ampiamente analizzati, trasformandolo in un’opera dalla più ampia portata che ancora oggi conserva il suo valore e la sua intensità.

Helter Skelter

Helter Skelter, serializzata tra il 1995 e il 1996 su Feel Young di Shōdensha e poi raccolta in volume in una versione “rimasterizzata” nel 2003, è probabilmente l’opera più famosa di Kyōko Okazaki, vincitrice del Premio Culturale Tezuka Osamu nel 2004 e tradotta in molte lingue.
La top model Ririko Hirukoma si è sottoposta a vari interventi di chirurgia plastica per ottenere un corpo e un viso perfetti ed essere richiestissima nel mondo della moda e dello show business. Tuttavia, il suo corpo inizia a deteriorarsi come effetto dei trattamenti e lei diventa disperata e scostante, scagliandosi dapprima contro la sua manager Tada, poi contro il pubblico, rendendosi conto che il suo attuale stile di vita non può durare a lungo. La situazione peggiora quando Tada le presenta la giovane Kozue Yoshikawa, la cui bellezza naturale e l’atteggiamento amichevole la rendono molto famosa. La popolarità di questa ragazza demotiva Ririko, facendola diventare ancora più terrorizzata dall’imminente oblio. Nel tentativo di non soccombere, la protagonista costringe la sua stressata assistente Michiko Hada a sabotare Kozue. Nel frattempo, l’ispettore Asada, che sta indagando su una serie di misteriosi suicidi e furti di organi, ritiene che Ririko e la sua innaturale bellezza possano essere la chiave per fare luce sui crimini. Passando del tempo con la meno attraente sorella minore di Ririko, Chiharu, l’ispettore vede una foto dell’aspetto di Ririko prima delle operazioni.

Dopo aver perso il lavoro e il fidanzato, Hada ne ha abbastanza della manipolazione e della crudeltà di Ririko nei suoi confronti. Per vendicarsi, invia ogni informazione sui segreti della modella alle riviste scandalistiche del mondo intero. Tutti iniziano a deridere Ririko, disprezzandola per le azioni contro la sua assistente, per il sabotaggio ai danni di Kozue e per aver nascosto l’aspetto originale del suo corpo. Quando si rende conto che nessuno la ama, Ririko decide di sparire durante una conferenza stampa dopo essersi strappata un occhio. Cinque anni dopo, Kozue è la top model numero uno, l’ospedale che offriva gli speciali trattamenti su cui indagava Asada è stato sottoposto a ulteriori indagini e l’agenzia di Tada ha chiuso i battenti. Mentre festeggia con i suoi amici dopo un servizio fotografico in Messico, Kozue si reca in un locale noto per i suoi spettacoli anticonvenzionali e vede Ririko che sta per esibirsi, indossando una benda sull’occhio sinistro.
Come pink, Helter Skelter presenta numerosi argomenti di discussione. Innanzitutto, riprendendo Hamano (2019), bisogna soffermarsi su Ririko, perno sul quale ruotano tutte le analisi del fumetto. Se da un lato la protagonista può collocarsi solo all’interno del circuito di una cultura consumistica, dall’altro riconosce la vulnerabilità dell’identificazione del sé con i segni. Ririko è la più brava a costituire un sé basato su valori semiotici nel contesto della società tardo-capitalista. Quando si parla di lei nei media, il suo nome viene ripetutamente usato non per riferirsi a lei come individuo particolare, ma come abbreviazione, in senso metonimico, per esprimere qualcosa di genericamente desiderabile. In sostanza, è ritratta come un segno simbolico nella società dei consumi. L’ispettore Asada afferma che la sua bellezza è un collage di qualsiasi cosa considerata “bella”, corrispondendo così ai desideri della popolazione. Ririko agogna disperatamente di preservare il proprio sé simbolico. Si può sostenere che Ririko sia un esempio di soggetto moderno che vive nella società dei consumi, avendo rinunciato al “reale” e non esitando a collocarsi tra valori semiotici appiattiti. Leggendo il personaggio di Ririko come soggetto semiotico della società dei consumi, si può osservare l’“implosione” del sé nella cultura piatta. Osservando l’ascesa, la caduta e la rinascita della celebrità Ririko, questo manga può essere considerato una critica alternativa dell’individuo e della società all’indomani del movimento sociale verso la cultura piatta. In questo tipo di movimento, i valori culturali nella società dei consumi si appiattiscono nel senso che i confini culturali sono a malapena tracciabili in un ordine di valori percettibile: banalmente, tutti i valori diventano sostituibili24.
Tutto ciò si lega inevitabilmente ai disegni di Okazaki. I disegni di questo fumetto, a fronte di una trama largamente apprezzata, vengono spesso criticati da molti lettori, ritenuti “abbozzati”, “eccessivamente minimali” o addirittura “poco comprensibili”. In questi pareri ci sono due errori evidenti e strettamente collegati: il primo è quello di separare la storia dai disegni (la forma dal contenuto), come se questi due elementi fossero compartimenti stagni che non risentono l’una degli altri o viceversa; il secondo è soprassedere sul fatto che siano proprio gli stessi disegni a rendere palese il focus dell’opera.
Per approfondire questo discorso, bisogna riprendere il concetto secondo cui il corpo femminile è soggetto al consumo semiotico. Senza addentrarsi nei manuali di semiotica, si ricorda come teoria preliminare che per il linguista Ferdinand De Saussure il segno è un’espressione che rimanda a un contenuto mentre per Luis Hjelmslev, altro linguista, il segno è un’entità generata dalla connessione fra espressione e contenuto. Queste sono le basi dei rapporti tra significante e significato. Nei fumetti, i significanti sono i segni stessi fatti con matita, pennino o altri materiali e i significati sono ciò a cui i disegni rimandano. Tuttavia, in Helter Skelter questo rapporto si complica particolarmente. I disegni che rappresentano Ririko si riferiscono al personaggio in quanto tale ma, come si diceva poc’anzi, Ririko stessa è esemplificazione di ciò che è bello in senso più generale. Ovviamente, questo viene compromesso dal fatto che la bellezza della quale è un esempio è sostanzialmente artefatta, fittizia, costruita a tavolino. In questo processo si può leggere ciò che viene consumato: così come il lettore consuma i di-segni di Ririko, allo stesso modo la società e il sistema mediatico consumano il corpo femminile sovraesponendolo, consumandone i segni che lo caratterizzano. I disegni si presentano quindi molto scarni fin dall’inizio non solo per essere una summa dello stile dell’autrice, ma per rimarcare, in maniera decisamente radicale, quanto la dimensione sociale in cui siamo immersi consuma segni e corpi fin dal principio. Il corpo di Ririko si sfalda progressivamente per il consumo sociale, mediatico, narrativo e metanarrativo, in una serie di strati sovrapposti che collocano l’opera in un contesto postmoderno. Persone e personaggi sono in partenza già consumati, così il compito diventa quello di ricostruirsi, di riappropriarsi della propria identità, di far emergere la propria natura, anche in un corpo distrutto. In questo fumetto etica ed estetica non possono andare di pari passo, almeno non per la protagonista, tanto bella quanto abietta e crudele. Per Kozue Yoshikawa, invece, tali ragionamenti non si applicano: avendo già distribuito le sue tendenze autodistruttive e nichilistiche durante l’adolescenza – si ricorda infatti che Kozue è un personaggio che già compare in River’s Edge, mostrando comportamenti borderline che preannunciano un futuro cupo poi smentito – cioè essendo molto più consapevole di una società che consuma, accetta con malcelata noncuranza il suo ruolo, forte della spontaneità giovanile e della maturità acquisita dalle esperienze. Come Yumiko in pink, Ririko è cosciente solo a metà della sua situazione, agendo in certi modi spinta dal fatto che non può più fermarsi dall’andare fino in fondo, ritrattando le proprie convinzioni e il proprio essere-nel-mondo. L’ambiguità di fondo dei personaggi così creati è sicuramente una delle caratteristiche più significative della scrittura di Okazaki, che non vuole offrire modelli di comportamento nelle sue opere, né dare una lezione morale al lettore, ma renderlo partecipe di un mondo specchio del reale, enfatizzato o esagerato in alcuni punti per fini drammatici. Secondo la lettura critica di Akiba (2013), in risposta al consumo che la società opera nei confronti dei corpi, soprattutto di quelli femminili, Ririko cerca di conservare il suo status quo affermando la sua individualità con tutte le forze, pur prevedendo la sua caduta25. A questo discorso, in ogni caso, si legano due punti di particolare rilievo. Il primo punto è il corpo visto come assemblage. Invece delle teorie di Deleuze e Guattari espresse in Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, ciò che è utile notare in questo caso è la definizione artistica di assemblage. L’assemblage è una composizione artistica solitamente creata su un supporto definito che consiste in elementi tridimensionali che si attaccano a tale supporto sporgendo da esso. È facile notare, quindi, il nesso che lega il corpo di Ririko al concetto di assemblage. La protagonista è un’installazione mobile le cui parti in deterioramento vengono sostituite prima che possano crollare: il suo corpo è il supporto su cui nuovi elementi tridimensionali vengono costantemente attaccati, creando un’”opera d’arte” vivente. Di per sé non ci sarebbe nulla di male, ma sfruttando una bellezza artificiale per scopi personali, Ririko è destinata al fallimento e non ne è all’oscuro. Per questo Okazaki si concentra sulla perdita di identità di Ririko e sulla sua insicurezza ontologica – espandendo un tema già affrontato nelle sue precedenti opere – perché nel flusso di segni offerto dal mondo mediatico, in un’era già intrisa nell’atmosfera della post-verità, non dovrebbe essere così importante offrire un’immagine “reale” di sé, ma la percezione del corpo, soprattutto quello delle celebrità, ha ancora una forte impressione sulle persone e per questo diventa un fatto sensazionale scoprire ciò che si cela dietro l’apparente perfezione. Tuttavia, solo la superficie viene scalfita da fan e hater. Il fatto per cui solo una piccola parte della natura sfaccettata di una persona venga estratta e scambiata per la totalità di quella stessa persona, e che alle star non sia permesso di discostarsi da questa immagine costruita, è uno dei motivi per cui la protagonista, in un pensiero all’inizio del libro, descrive le stelle nel cielo come “deformi”, riflettendo così indirettamente sulla sua condizione. La star è una figura “simbolica” a cui tutti aspirano e ciò è più importante di identificarla come un essere umano in carne e ossa con dei sentimenti. Il ruolo di “simbolo” è intrinsecamente crudele, perché è sostituibile da altre figure e può facilmente perdere il suo valore, man mano che il pubblico continua a consumarlo, quando subentra la noia26.
Non è un caso, quindi, secondo me, che nell’opera siano presenti diversi riferimenti al film Il volto di un altro (1966) di Hiroshi Teshigahara (1927-2001), tratto dal libro omonimo di Kōbō Abe (1924-1993) pubblicato nel 1964. Ne Il volto di un altro Okuyama (Tatsuya Nakadai) viene sfigurato da un incidente sul lavoro ed è costretto a indossare bende su tutta la faccia e in testa. Rifiutato dalla moglie, viene convinto dal suo psicologo a indossare una maschera protesica. La maschera, tuttavia, lo trasforma lentamente in un’altra persona, cambiandone la personalità ed eliminando la sua moralità. Il film di Teshigahara, riflessione sul conformismo e l’omologazione che cancellano l’individualità, può essere direttamente collegato a Helter Skelter. Nel fumetto di Okazaki, Ririko compie le innumerevoli operazioni per conservare la sua bellezza, distinguersi dalla massa e rimanere unica, ma il risultato è comunque la perdita di moralità e l’emergere di una natura sadica. In questo senso, il cambiamento del corpo porta inevitabilmente a un cambiamento emotivo e mentale, sintomo di un’identità ormai smarrita nella circolazione e nell’inspessimento del consumo semiotico, e lo stesso cambiamento lascia emergere l’impossibilità di una connessione con gli altri, essendo la chirurgia plastica un mezzo per costruire una “seconda pelle”.

Il punto successivo riguarda il tema dell’opera. Quasi sempre Helter Skelter viene percepito dai lettori come una critica al mondo dello spettacolo e alla vacuità della ricerca della bellezza eterna. Alla luce di quanto già scritto, più che una simile operazione decisamente didascalica – non per questo errata ma forse svilente nei confronti del portato artistico dell’autrice – uno dei temi centrali del fumetto sembra essere la riflessione sul ruolo delle icone e sulla catarsi che si prova nel distruggerle.
Provando a tracciare un percorso lungo queste direttive, risulta necessario fare alcuni parallelismi con la figura di Marilyn Monroe (1926-1962), evitando qualsiasi biografismo per comprendere piuttosto come è stata percepita, quale influenza ha avuto nella cultura popolare negli anni successivi alla sua morte e come tutto ciò si collega alle opere di Kyōko Okazaki.
Gli anni Ottanta, il decennio del materialismo estremo in cui Okazaki sale alla ribalta come mangaka, il ruolo di icona culturale di Marilyn Monroe, che era scomparsa da circa vent’anni, viene potenziato a dismisura. In particolare, ciò succede grazie (o a causa di) Madonna: con il video di Material Girl, secondo singolo estratto dall’album Like a Virgin (1984), l’artista statunitense riprende, a livello visivo e performativo, una delle sequenze canore più famose di Marilyn Monroe, Diamonds Are a Girl’s Best Friends, contenuta nel film Gli uomini preferiscono le bionde (1953) diretto da Howard Hawks (1896-1977). L’imitazione è intervallata da una storia parallela, nella quale il protagonista è un regista di Hollywood che cerca di conquistare il cuore di un’attrice, interpretata da Madonna stessa. Diversamente da quanto afferma il testo della canzone, la donna non è attratta dal denaro e dai regali costosi, poiché il regista finge di essere senza soldi ma riesce comunque a portarla fuori a cena. L’ambiguità che emerge tra testo e immagini, così come il rapporto tra il contenuto stesso della canzone e l’icona Marilyn, è interessante, perché accomuna la rappresentazione femminile messa in scena da Madonna e da Okazaki. Ririko è una material girl27, ma non è solo questo: la consapevolezza verso la propria condizione, di cui si è già parlato, mette in evidenza la sua ambiguità intrinseca, il suo conformismo da un lato e l’anticonvenzionalità esistenzialista e nichilista dall’altra. Utilizzare la figura di Marilyn Monroe per esprimere un certo tipo di fragilità femminile è una modalità che Madonna e Okazaki sfruttano per ripensare la rilevanza di un’icona, mettendola di fronte a uno specchio per farla confrontare con sé stessa.
In Blonde (2022) di Andrew Dominik (1967-), biopic sull’attrice basato su un romanzo, si ripresenta la medesima tipologia di raffronto, perché l’icona viene separata dalla persona. Norma Jeane (nome reale della donna) si trova faccia a faccia con Marilyn, che per lei non è un doppio creato dal bipolarismo, ma una maschera da indossare nel mondo sociale e artistico hollywoodiano. Lungo il corso del film, la maschera si “mangia” la persona fino a fondersi con essa, creando dissociazioni dalla realtà volte a elaborare i traumi. Blonde, più che un biopic in senso stretto, usando parossismi che poco hanno a che vedere con ciò che è successo realmente, è uno studio sull’icona-Marilyn e su come è stata veicolata attraverso il filtro delle immagini cinematografiche. Di conseguenza, più che l’aderenza ai fatti, diventano importanti i cambi di formato, l’alternanza di bianco e nero e colori, l’impiego variegato di tecniche di deformazione dell’immagine (warping, flare, ecc.), l’uso delle luci in funzione narrativa e tematica e altri elementi che modulano episodicamente istantanee di vita dell’attrice, abbandonandosi a un’analisi a tratti fredda e clinica e a tratti voyeuristica. Come il film ragiona sul processo di distruzione delle icone – o meglio, dell’icona per eccellenza – Helter Skelter si muove sugli stessi binari, proponendo però un finale dai risvolti catartici per protagonista e lettori – d’altronde la catarsi, nell’antica Grecia, era anche il rito magico di purificazione del corpo e dell’anima – in cui Ririko ha accettato il decadimento (del corpo, della gioventù, della popolarità) e ha fatto della stessa accettazione uno dei valori su cui rinascere, seppur lontano dalla sua “casa”, ribaltando ogni assunto precedente. Soprattutto in questo si situa la grande intuizione di Okazaki, esprimendo la necessità di forti partecipazione e coinvolgimento e fornendo spunti che sfiorano l’autobiografismo. I processi in atto diventano quelli di distruzione dell’icona e ricostruzione della persona, marcando così il nucleo centrale dell’opera e segnalando come qualsiasi icona, pur nella sua grandezza, sia sostanzialmente debole e incline all’autosabotaggio.
Il legame tra Okazaki e Madonna, in ogni caso, non si esaurisce con questi riferimenti citati pocanzi. Il tema della vergine – per Madonna Like a Virgin era da intendere come la scoperta di una rinnovata freschezza e vitalità, ma l’ambiguità sessuale che permea il testo è certamente voluta – è ripreso anche dall’autrice giapponese. La sua prima antologia di racconti si chiama Virgin (1985, Kawade Shobō Shinsha), seguita poi nel 1986 dalla raccolta episodica Second Virgin (Futabasha). Per quanto le storie si differenzino tra loro per temi e atmosfere, rievocare nel titolo la verginità significa per Okazaki mostrare non solo l’ambivalenza che pervade le opere, ma in particolar modo come la purezza ideale venga, da un lato, sporcata dagli eventi del mondo, dalle relazioni sociali, da una società che ingloba ogni sentimento reale e, dall’altro, conservata con tentativi disperati all’interno di alcune dinamiche o interiorizzata per essere distribuita agli altri in piccole dosi.
Andando alle origini di Helter Skelter, è interessante notare che la protagonista avrebbe dovuto chiamarsi Tiger Lily – come una nativa dell’Isola che non c’è di Peter Pan, altra rielaborazione fiabesca dell’autrice – mentre il titolo del fumetto sarebbe stato Dream Machine28.
Prima di fare un doppio salto mortale interpretativo è necessario spiegare cos’è una dream machine. La dream machine è un dispositivo stroboscopico a luce intermittente che produce stimoli visivi. L’esperienza con questo dispositivo si fruisce a occhi chiusi, infatti la luce pulsante stimola i nervi ottici e mentre gli utenti si abituano all’esperienza vedono dietro le palpebre chiuse disegni animati e colorati sempre più complessi, simili a mandala o yantra.
Penso che si possa intendere quel titolo in diversi modi, ma probabilmente Okazaki voleva suggerire in modo provocatorio, a un livello superficiale, quanto “la macchina dei sogni” dello spettacolo fosse in realtà un tritacarne che consuma i corpi e trasforma i sogni in incubi e, a un livello più sotterraneo, quanto insieme alla progressione della lettura aumenta anche la complessità di ciò che viene proposto, componendo un quadro ben più intricato e allegorico rispetto alle premesse. Dream Machine, inoltre, rimanda a una strana connessione - coincidenza, direbbero i più razionali, ma proviamo a volare alto per una volta. L’ultimo film del compianto Satoshi Kon (1963-2010) si sarebbe dovuto intitolare Dreaming Machine e avrebbe dovuto essere un’ulteriore esplorazione del sottile confine tra finzione e realtà al quale il regista ha dedicato quasi la totalità della sua produzione. Il nome della protagonista del film, un robot dall’aspetto di Paprika dell’omonima pellicola, era stato deciso: Ririko. La connessione potrebbe essere leggermente forzata ed è probabile che stia sovrainterpretando tutta la situazione, coinvolto come sono nelle esperienze estetiche causate da quelli che ritengo due dei miei più cari auctores, ma provo ad aggiungere un ulteriore tassello. I legami tra Kon e Okazaki non si fermano qui, ma possono essere tracciati anche nel passato del regista. Perfect Blue (1997), pur basandosi su un romanzo del 1991, investiga la relazione morbosa con la fama e cosa si è disposti a fare per raggiungerla (o mantenerla), il rapporto tra immagini, corpi e consumo e la sovrapposizione tra fittizio e reale. Realizzato tra il 1995 e il 1996, ovvero durante la serializzazione di Helter Skelter, sembra aver ricevuto una notevole influenza da quest’ultimo. Nulla di questo può essere provato ufficialmente e definitivamente: svolgendo ricerche per questo articolo ho sondato differenti fonti dal giapponese, ma non emergono informazioni decisive in merito, né analisi comparate che mettono in luce l’attinenza tra Satoshi Kon e Kyōko Okazaki, nonostante diverse persone notino le similitudini tra Perfect Blue e Helter Skelter per alcuni elementi citati. Questo forse è successo (e continua a succedere) perché Okazaki ha avuto un pesante ascendente artistico su tantissimi autori e autrici – Moyoco Anno (1971-, sua assistente), Inio Asano (1980-), Akane Torikai (1981-), ecc. – anche grazie alla continua ristampa della maggior parte dei suoi lavori, che continua senza sosta da più di vent’anni e ha colpito persone di età ed estrazione diversa.
In conclusione, l’orrore di quest’opera non risiede soltanto nella gloria vissuta da Ririko, che ha raggiunto una bellezza artificiale, ma anche nell’abile rappresentazione del tumulto emotivo che attraversa mentre si prepara a cadere al suolo. Il suo senso di insicurezza è alimentato dai segni di un destino imminente e inevitabile, al quale lei continua a resistere con tutte le forze. L’esempio più significativo è forse il gesto in cui, poco prima di recarsi alla conferenza stampa preparata sul finale, si toglie da sola il bulbo oculare destro per poi scomparire. I bulbi oculari, non essendo modificati chirurgicamente, sono una forte espressione della sua identità, ma questo gesto – che può ricordare un altro film che ha per tema la bellezza, The Neon Demon (2016) di Nicolas Winding Refn (1970-) – significa anche il rifiuto di “vedere” gli altri e quello di essere “vista”: Ririko ha chiuso gli occhi ed è sfuggita allo sguardo dei media e delle persone, dimostrando che una volta “scuoiati”, tutti sono uguali. L’atto di estrarre un occhio dal suo corpo è un rifiuto dell’approvazione che stava cercando ed è la resistenza all’immagine di sé continuamente lacerata dal consumo e distorta dai desideri altrui29.

Conclusioni

Il consumo di valori va oltre l’appagamento materiale e segue l’enfasi sullo stile di vita consumistico, che comprende pratiche di consumo collegate alla rappresentazione e all’identificazione del sé. Situare il sé dando nuovi significati e interpretazioni al consumo di un prodotto può essere liberatorio, ma può anche aumentare l’insicurezza ontologica e l’atomizzazione. Inoltre, tale pratica ha ramificazioni per il rapporto tra individuo e società: può portare a un tipo di critica incentrata non sul potenziale politico collettivo delle pratiche individuali o sulla sfida all’ordine dei valori dominanti nella società, ma sull’enfatizzazione dell’individuo atomico. Le opere di Kyōko Okazaki rivelano ai lettori i modi in cui la preoccupazione per il sé in relazione alla società si è individualizzata ed evidenziano anche il rapporto tra l’io e la società, che diventa sempre più egoistico piuttosto che orientato all’azione comunitaria. Le domande sulla società sono state trasformate in questioni che riguardano le insicurezze ontologiche dei singoli individui invece che le realtà sofferte collettivamente o i valori culturali soggetti a cambiamento. Sebbene tutti i fumetti di Okazaki, anche quelli non trattati direttamente in questo articolo, esprimano un atteggiamento tipicamente nichilista nei confronti della società, i suoi personaggi osavano scegliere ed esprimere il proprio io in modo convincente e anticonvenzionale, macchiati spesso da sentimenti di dubbio e rimpianto che oscurano la loro vita all’interno delle pagine: i significati da cui vengono bombardati si distaccano dai valori sociali, causando un cortocircuito emotivo destabilizzante30. In definitiva, si può affermare che i manga di Okazaki posseggano una qualità particolare: pur presentandosi come “capsule del tempo”, come le definisce il critico e filmmaker sperimentale Ryūsuke Itō31 – che ha dedicato anche un’interessante videoinstallazione32 all’autrice, riflettendo sul confronto che si crea tra pagine, personaggi e spazio urbano periferico, altro tema fondamentale presente maggiormente in River’s Edge, Georama Boy Panorama Girl (Magazine House, 1988) e Tokyo Girls Bravo (Takarajimasha, 1993) – che descrivono precisamente le persone, l’atmosfera, le emozioni e i luoghi del periodo in cui sono state realizzate, conservano in fondo una loro universalità che le rende perfettamente leggibili in qualsiasi epoca e contesto, perché dirette, affilate e atipiche. Kyōko Okazaki è stata forse la mangaka che più di altri e altre ha saputo anticipare le conseguenze psicologiche e culturali del “decennio perduto”, ponendosi come cassandra di un vuoto emotivo che ancora oggi perseguita almeno tre generazioni in ogni parte del mondo e che è imperativo analizzare, ricostruire e rimettere in prospettiva, soprattutto attraverso il fumetto, forma espressiva aperta e stimolante da lei prediletta.

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Bibliografia

  • Akiba, M.(2013). Okazaki Kyōko ‘Helter Skelter’ ron, Tamamo, Ferisujoshi Gakuin University, pp.153-168.
  • GESSHIN Ca’ Foscari University of Venice (2021). They might have been their own, but also ours today: An introduction to the works of Kyoko Okazaki, Youtube, https://www.youtube.com/watch?v=RpQEZlwgjxc
  • Hamano, T. (2019). Witness to a Transition: The Manga of Kyoko Okazaki and the Feminine Self in the Shift toward ‘Flat Culture’ in Japanese Consumer Society, in Ogi, F., Suter, R., Nagaike, K., Lent, J. A. (a cura di) (2019). Women’s Manga in Asia and Beyond: Uniting Different Cultures and Identities, Cham, Londra: Palgrave Macmillan, pp. 285-307.
  • Holmberg, R. (2022). The Life and Art of Yamada Murasaki, in Yamada, M. (2022). Talk to My Back, Montreal: Drawn & Quarterly, pp. VII-XLII.
  • Itō, R. (2010, 4 aprile). Okazaki Kyōko-san no kūkan, Realistic Virtuality: Ryusuke Ito. Ultima consultazione il 31 marzo 2024, http://realisticvirtuality.ldblog.jp/archives/51984059.html
  • Matsumoto, M. (2020). ’Pink’ kara ‘pink’ e: Okazaki Kyōko ‘pink’ ron, Taishu Bunka, Edogawa Ranpo Kinen Taishu Bunka Kenkyu Senta, pp. 55-69.
  • Okazaki, K. (1995-1996), Helter Skelter, Tōkyō: Shodensha; ed. it. (2018) trad. di Susanna Scrivo, Reggio Emilia: Dynit Manga.
  • Okazaki, K. (1989) pink, Tōkyō: Magazine House; ed. it. (2019) pink trad. di Susanna Scrivo, Reggio Emilia: Dynit Manga.
  • Spies, A. (2003). pink-ness, U.S.-Japan Women’s Journal, Honolulu: University of Hawai’i Press, N. 25, pp. 30-48.

Note


  1. Hamano (2019). ↩︎

  2. Hamano (2019), p.287. ↩︎

  3. Hamano (2019), p.288. ↩︎

  4. Hamano (2019), pp.289-290. ↩︎

  5. Per “consumo semiotico”, si intende il passaggio dal valore d’uso al valore simbolico di un qualsiasi bene e può essere spiegato, a livello individuale, come un cambiamento nella concezione di sé: dall’essere “uguali” all’essere “diversi” dalla società. In questo modo, l’individualizzazione nella società si rinforza e, di conseguenza, nella società dei consumi, le persone desiderano contemporaneamente “essere uguali” ed “essere diverse”. Le persone vogliono contemporaneamente “omologarsi” e “essere alternative”, perché non vogliono la completa dissoluzione dell’io nella società massificata, ma allo stesso tempo non vogliono sentirsi escluse da essa. Il consumo semiotico dei corpi, a cui si farà riferimento in seguito, è il consumo metaforico, attraverso esperienze mediatiche, di un corpo dal valore simbolico, cioè che ha valore per ciò che rappresenta. ↩︎

  6. Semplificando molto il pensiero deleuziano, si potrebbe dire che la differenza assume certe qualità ontologiche rispetto all’identità e implica che le identità vengano costruite solo attraverso processi di differenziazione, non di uguaglianza. ↩︎

  7. Hamano (2019), pp.290-291. ↩︎

  8. Okazaki Kyōko pink, trad. di Susanna Scrivo, Reggio Emilia, Dynit Manga, 2019, pp. 216-217. ↩︎

  9. Spies (2003), p.34. ↩︎

  10. Spies (2003), p.37. ↩︎

  11. Nell’ambito dell’editoria giapponese, l’obi è una striscia di carta arrotolata intorno a un libro o a un altro prodotto (per esempio un cofanetto) che riassume alcuni dei contenuti. Questo termine è un’estensione della parola usata nell’abbigliamento giapponese per la fascia che stringe il kimono. ↩︎

  12. Okazaki, pink, p. 255. ↩︎

  13. Spies (2003), p.35. ↩︎

  14. Spies (2003), pp.31-32. ↩︎

  15. Gli yonkoma sono fumetti composti da quattro vignette della stessa misura e forma posizionate in verticale di solito dal contenuto umoristico. La struttura dei manga di questo tipo, chiamata kishōtenketsu, termine che si ispira agli antichi testi cinesi di poesia, è abbastanza rigida, essendo composta da: ki, l’introduzione; shō, lo sviluppo; ten, il culmine o la svolta; ketsu, la conclusione. ↩︎

  16. pink, se osservato a livello di trama, potrebbe essere considerato una sorta di modernizzazione della favola di Biancaneve. ↩︎

  17. Spies (2003), p.43. ↩︎

  18. Hamano (2019), p.300. ↩︎

  19. Matsumoto (2020), pp.55-56. ↩︎

  20. Hamano Takeshi, They might have been their own, but also ours today: An introduction to the works of Kyoko Okazaki, Conferenza online all’Università Ca’ Foscari di Venezia, 2021. Disponibile al link: https://www.youtube.com/watch?v=RpQEZlwgjxc ↩︎

  21. Holmberg (2022), p.375 ↩︎

  22. Negli anni Ottanta il termine gyaru, traslitterazione giapponese della parola inglese “girl”, era applicato a ragazze adolescenti o ventenni attente alla moda e alle dinamiche sociali con i propri pari. ↩︎

  23. Matsumoto (2020), pp.62-64. ↩︎

  24. Hamano (2019), pp.301-303 ↩︎

  25. Akiba (2013), p.155. ↩︎

  26. Akiba (2013), p.160 ↩︎

  27. Anche Yumiko è una material girl e Marilyn viene omaggiata da Okazaki nel frontespizio del capitolo 14. Okazaki, pink, p. 159. ↩︎

  28. Akiba (2013), p.155. ↩︎

  29. Akiba (2013), pp. 164-165. ↩︎

  30. Hamano (2019), pp.305-306 ↩︎

  31. Itō Ryūsuke, “Okazaki Kyōko-san no kūkan” [Lo spazio di Okazaki Kyōko], Realistic Virtuality: Ryusuke Ito. Disponibile al link: http://realisticvirtuality.ldblog.jp/archives/51984059.html (ultimo accesso: 25/02/23) ↩︎

  32. Disponibile al link: https://www.youtube.com/watch?v=2YEoNv4F31U (25/02/23) ↩︎

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